Il dodicesimo di una serie di racconti brevi composta da Antonio Petracchi, che EccociToscana sta qui pubblicando in una rubrica apposita
di Antonio Petracchi
Casa mia, no casa tua
Non era un gatto, non era un cane.
Ogni tanto si affacciava, non chiedeva permesso, ma era come se lo facesse. Si sedeva e in silenzio aspettava, non aveva un appuntamento. A chi gli diceva: “Vada, tocca a lei”, lui rispondeva: “Passi pure. Vada, tanto io non ho da fare niente, posso aspettare”.
Poi, com’era arrivato in silenzio, quando i più erano distratti, se n’andava com’era venuto. Lei, che aveva notato questo suo fare, un giorno andò ad aspettarlo di là dove sgusciava. “Aspetti, aspetti! Volevo dirle che…”. Ma lui, senza voltarsi, allungò il passo e sparì, tra spalle quadrate e silhouette vocianti.
Perché mai facesse così nessuno lo aveva capito. Non era un gatto, non era un cane, ma il suo fare li ricordava molto. Un giorno, sulla sera, aspettava fuori, come chi spia il fare degli altri. Appena la porta s’aprì, mise la mano per fermare il suo ritorno e salutato con buon fare la signora che usciva, entrò. E ratto andò a sedersi in un posto di lato, non lontano dalla finestra. Chi entrò dopo chiese chi era l‘ultimo. Lui non rispose. Allora un ometto tondo, con la camicia macchiata di grasso, di quel grasso sodo dei camion: “È lei l’ultimo, vero?” Non aveva finito di dirlo che si buttò sulla sedia nell’angolo. La sedia mandò un cigolio come a voler dire qualcosa a quel corpo che maldestramente si era piombato su di lei, e che ora s’accovacciava.
Il gatto gli mandò un’occhiata di traverso lui, ignaro, cominciò a mettersi un dito nel naso. Per non vedere oltre si voltò e prese a pensare a quello che doveva fare dopo. Filippa sarebbe andata a casa a vedere la nonna e poi, con lui, sarebbero andati all’orto. Aveva lasciato da vangare una proda, e ora che la terra sembrava in succhio voleva approfittarne. La Filippa insieme alla Gina pensavano a quella povera donna. Loro che da giovani ne avevan fatte di cotte e di crude, ora una doveva aspettare che le altre la tirassero giù dal letto. Le altre dovevano aspettare che lei facesse i suoi bisogni. Così, non c’era santo giorno che le tre grazie si ritrovassero insieme. Parlavano poco, ma parlavano ogni tanto di quello che avevano fatto al figliolo del calzolaio, o di quello che avevano raccontato al prete per sentirgli dire che era peccato, e che non si possono fare cose così lussuriose. Ridevano e poi sogghignavano. La Gina, che era la più tremenda, lei, non si lasciava andare alle risate grasse. Lei si mordeva la lingua con i denti davanti, e rideva a singhiozzo. Sputacchiava come una caffettiera. Le altre due si contenevano e poi giù a ridere a gola aperta. Ricordo che una volta Lando le aveva sorprese mentre ridevano a crepapelle, e lui che le aveva viste solo e soltanto a capo basso. Si era fatto l’idea che fossero state allevate tutte e tre in un convento di clausura e che il sorriso non gli appartenesse.
Al che lui, sentendo da fuori quello schiamazzo, aveva li per lì aspettato ad aprire la porta, e tra un risata a squarciagola e un sorriso singhiozzato, aveva sentito una parola a dir poco insolita. Palle. Sì, ti ricordi quando lo presi per le palle?
Mettere la mano sulla maniglia e spingere la porta fu tutt’uno. Come il vento che spalanca una porta, così il Lando era entrato in quella stanza precipitando in mezzo a quegli sputazzi.
di Antonio Petracchi